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La rinuncia alla proprietà immobiliare: la posizione della Corte di Cassazione e la sentenza 23093 del 11/08/2025

7 Settembre 2025
Scritto da Fabio Marinelli

La rinuncia alla proprietà immobiliare è un atto formale, unilaterale e senza alcun corrispettivo, che permette al proprietario di dismettere un immobile. Tale atto può essere abdicativo allo Stato, nel qual caso la proprietà passa automaticamente allo Stato secondo l’art. 827 del Codice Civile, o alla comproprietà, con accrescimento proporzionale delle quote degli altri comproprietari. La procedura richiede un atto scritto dal notaio e la sua successiva trascrizione nei registri immobiliari per renderla efficace. 

Il problema della rinunciabilità del diritto di proprietà immobiliare è risalente nel tempo, tanto da essere già prevista nel diritto romano classico, fondandosi sulla facoltà della “cd. Derelictio”.  Qui si discuteva unicamente se, oltre la volontà del proprietario e l’effettivo abbandono della cosa, occorresse anche l’occupazione del bene da parte di un terzo.

Il diritto moderno se ne è  interessato essenzialmente per condizionarne la validità ad una dichiarazione in forma scritta da rendere pubblica mediante trascrizione (ad esempio,art. 1314, n. 3, del codice civile 1865) o, nelle legislazioni di tipo germanico, mediante l’iscrizione nei libri fondiari. La dottrina affermava che la rarità dei casi in cui potesse avvenire una rinuncia del titolare alla proprietà di un immobile, giustificava che, da un lato, l’ordinamento civilistico ne limitasse la sua disciplina alla mera previsione di specifiche formalità, mentre, dall’altro, non si curasse di regolarne dettagliatamente le modalità di dismissione, pur avvertendo che detta rinuncia era funzionale a soddisfare l’esigenza, tutt’altro che infrequente, di disfarsi di fondi la cui gestione risultasse non soltanto infruttuosa, ma anche dannosa.

Sino ad oggi, nella pratica, questo atto, in favore dello Stato, veniva sempre avversato dalle amministrazioni, perchè si concretizzava in una perdita di gettito fiscale, da un lato, e nell’accollo di spese di varia natura, talvolta estremamente onerose, per il mantenimento della “Res Derelicta”.

Tali atti sono stati sempre contrastati con successo dalle amministrazioni comunali, regionali e statali sulla scorta del principio della“non configurabilità nel nostro ordinamento di una generica facoltà di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, sostenendo la illiceità e\o non meritevolezza della causa dell’atto impugnato, ovvero la illiceità del motivo determinante, la frode alla legge, o ancora l’abuso del diritto”.

Finalmente, a seguito del procedimento di rinvio pregiudiziale di tale questione su impulso dei Tribunali di L’Aquila e Venezia, la Suprema Corte ha finalmente fatto chiarezza sul punto.

In tal senso il P.M. della Cassazione nella sua requisitoria ha così argomentato sulla questione:“la rinuncia al diritto di proprietà immobiliare è ammissibile, quale atto negoziale in cui si estrinseca lo statuto proprietario. Il relativo negozio unilaterale a carattere abdicativo, non traslativo, non recettizio, irrevocabile, sottoposto a forma scritta ad substantiam e trascrivibile esclusivamente contro il rinunciante, comporta ipso iure l’acquisizione a titolo originario da parte dello Stato del bene oggetto di rinuncia ex art. 827 c.c. Esso è comunque soggetto a un giudizio di meritevolezza agganciato ai valori costituzionali, fondanti l’ordinamento giuridico, e al rispetto del diritto europeo, di modo che il negozio unilaterale di rinuncia abdicativa del diritto di proprietà immobiliare in casi eccezionali può essere considerato immeritevole di tutela e, quindi, nullo se consista in un’operazione economica che si ponga in netto e irriducibile contrasto con gli interessi pubblici, collettivi e generali espressi dalla Costituzione e dai Trattati europei e concretantisi, in particolare, nel principio costituzionale della parità di bilancio e dei relativi vincoli europei di bilancio, senza che a tal fine sia sufficiente il mero perseguimento da parte del rinunciante di un fine egoistico.”.

Di contro lo Stato Italiano attraverso gli enti (Ministero dell’economia e delle finanze -Agenzia del Demanio) parte del giudizio hanno sostenuto in base ad una loro interpretazione della lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 827 c.c, la diversa tesi qui riportata: “deve essere interpretato nel senso che allo Stato spetta il potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto, con efficacia ex tunc.” Ancora: “ogni qualvolta l’atto di rinuncia venisse posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. – e dunque in capo alla collettività intera – i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale: cfr. art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia sarebbe nullo.”

Preliminarmente, va detto che, già prima degli anni ‘90 la giurisprudenza della Suprema Corte ha in limine litis  marginalmente, affrontato il tema della rinuncia alla proprietà degli immobili, dando sempre per scontata la sua ammissibilità, seppur nel rispetto dei requisiti formali previsti dalla legge.  Nella sentenza di cui in epigrafe vi sono precisi richiami sia a sentenze italiane susseguitesi nel tempo, sia alla giurisprudenza della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, richiamando la sentenza 30 agosto 2007, J.A. Pye (Oxford) Ltd & J.A. Pye (Oxford) Land Ltd v. United Kingdom (ric. n. 44302/02), sia alla Corte Costituzionale, con la sentenza 27 febbraio 2024, n. 28 ( che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 633 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 42 e 47 della Costituzione sulla tutela del diritto di godere pacificamente o di disporre dell’immobile,  oggetto dell’azione delittuosa non possono che essere terreni o edifici altrui, senza alcuna distinzione, e quindi anche terreni incolti, o non produttivi, nonché edifici disabitati o abbandonati).

Pertanto la Suprema Corte ha stabilito il principio che “La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene.” Essenziale e primario nella pronuncia è il principio che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare ‹‹trova causa››, e quindi riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un ‹‹altro contraente››.” Qui appare chiaramente superata la posizione sostenuta dallo Stato Italiano. Ancora sostiene la CorteAllorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un «fine egoistico», non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per «motivi di interesse generale».”  Quindi, conclude asserendo senza mezzi termini che “esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile, essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di  esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato.”

La ricaduta che avrà la sentenza non è di poco conto, sia dal punto di vista economico che da quello pratico, affermando la superiorità del diritto del titolare a poter disporre della sua proprietà, in ogni senso, ove non vi siano precisi e chiari limiti imposti dalla legge, funzionali all’interesse collettivo che deve essere fatto valere dallo Stato e che non può essere delegato al singolo individuo, cui spetta il diritto di disposizione del bene.

Avv. Fabio Marinelli, foro di Napoli