Riforma Cartabia nel processo penale, luci e ombre
Davvero la riforma Cartabia abbrevia la durata dei processi? E’ questo l’interrogativo che ci si pone.
La prescrizione, per i reati commessi fino al 31 Dicembre 2019, continuerà ad avere un termine pari al massimo della pena prevista e, comunque, non inferiore a sei anni, prolungato fino ad un quarto oppure alla metà per alcuni reati come i delitti contro la Pubblica Amministrazione, associazione a delinquere semplice e di stampo mafioso ed altri, oltre che nei casi di recidiva. A questi, per i reati commessi dopo il 3 agosto 2017, devono aggiungersi le complessive sospensioni di tre anni, dovute per legge, dopo la lettura della sentenza di I e II grado (che non si computano in caso di assoluzione nei gradi successivi al primo).
Salvo altre sospensioni eventuali, oggi la durata massima di un processo per reati, commessi entro il 3 agosto 2017 e puniti con pene nel massimo fino a sei anni, è di sette anni e mezzo, mentre, per quelli commessi da quella data e fino al 31 dicembre 2019 è di 10 anni e mezzo.
Qualche esempio, per la corruzione propria, commessa entro il 3 agosto 2017, è di 12 anni, dopo e fino al 31 dicembre di 15 anni, per la corruzione impropria, entro il 3 agosto 2017, di 15 anni, dopo ed entro il 31 dicembre 2019 di 18. Per il reato di associazione mafiosa, a titolo di promotore, solo per averla costituita e farne parte, senza aver commesso i cd. reati scopo, il processo può durare nel massimo anche fino a 27 anni nel primo caso e 30 nel secondo. Il reato di violenza sessuale ha un termine di prescrizione raddoppiato e, quindi, il processo può durare complessivamente 30 anni nel primo caso e 33 anni per il secondo, mentre in caso di violenza sessuale di gruppo la durata massima può essere di 35 anni nel primo caso e 38 nel secondo.
A parere di chi scrive, tali termini paiono, del tutto, sproporzionati, al punto che si ritiene che un ordinamento che non arrivi a sentenza definitiva entro questi termini non possa, di certo, dirsi democratico.
L’effetto della riforma riguarderà proprio la fissazione di un limite temporale a celebrare gli altri due gradi di giudizio per questo ultimo gruppo di reati, limite che, in origine era due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, ricalcando sostanzialmente i termini della riforma Orlando.
L’ultimo compromesso raggiunto tra le forze politiche ha allungato i termini per l’improcedibilità in II e III grado fino a quattro anni, per tutto il periodo fino al 31 dicembre 2024, o per sempre per alcuni tipi di reati (violenza sessuale, associazione a delinquere di stampo mafioso, terrorismo o associazione a fini di spaccio ed altri), con l’aggiunta di proroghe discrezionali ad opera delle Corti territoriali (per tutti i reati fino a complessivi un anno mezzo; per alcuni reati fino a complessivi quattro anni e mezzo, per altri reati senza limite).
Tutto ciò avrà l’effetto di allungare, notevolmente, i tempi del processo, codificando il principio che un appello potrà durare anche cinque anni.
E quindi, per un furto di bicicletta, per un’appropriazione indebita o per un’ occupazione abusiva di parcheggio si potrà stare sotto processo anche per 11 anni e mezzo… e ancora, un diciottenne imputato di riproduzione abusiva di CD musicali, potrà sottostare ad un processo per ricettazione anche per 15 anni e mezzo ed essere condannato in via definitiva ormai più che trentenne, quando avrà famiglia e un’attività lavorativa.
Se si ritiene, come insegnava Beccaria quasi due secoli orsono, che il processo debba essere, sempre, improntato alla presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva e la pena debba essere equa e proporzionata al fatto, tutto questo non è accettabile perché crea dei veri e propri mostri giuridici.
Si è, ovviamente, in disaccordo con chi ha gioito per aver ottenuto termini di improcedibilità più lunghi, essendo stata disattesa una riflessione fondamentale, la presunzione di innocenza e ci si è, invece, attestati su una cultura secondo cui “l’ imputato non debba farla franca”.
La scelta dei reati è stata determinata dal concetto di c.d. riprovevolezza comune per il tipo di condotta antigiuridica contestata, quindi una selezione fondata su una presunzione di colpevolezza preventiva, che in questi casi nega il giusto processo.
Non si è pensato che l’imputato di questi reati, dopo un processo durato anche venti anni, potrebbe risultare innocente.
E che dire delle vittime di tali reati? Ancora una volta, la quantificazione del danno da parte del Giudice non è obbligatoria ed esecutiva, almeno all’esito di una doppia condanna del reo. La persona offesa è costretta ad un doppio processo, penale e civile, i cui tempi conseguentemente si allungheranno, permettendo al condannato in via definitiva, nelle more, di rendersi insolvibile.
La proposta originaria della Commissione Lattanzi era coraggiosa, calibrata e innovativa, in quanto conciliava, concretamente, l’esigenza di processi veloci con misure mirate alla deflazione del processo e con l’incremento di riti e pene alternative.
Altrettanto non può dirsi della riforma Cartabia che ha snaturato il progetto iniziale, lasciando spazio all’allungamento dei termini processuali, richiesti a gran voce da una parte politica giustizialista e populista.
Ancora una volta, purtroppo, la giustizia è stata campo di compromessi politici e non considerata come settore estremamente tecnico nel quale affidarsi agli esperti.
Il metodo di ragionamento illuminato della Ministra Cartabia esprime un livello giuridico e culturale considerevole da difendere, esprimendo una scelta di direzione che deve essere, necessariamente, potenziata, in quanto la riforma è del tutto insufficiente a raggiungere l’obiettivo prefissato.
Il tutto al netto dei futuri e possibili pronunciamenti di incostituzionalità (che verranno sollevate) rispetto a proroghe discrezionali dei Giudici del gravame, contrarie ad ogni forma di certezza per l’imputato.
Si ritiene che ci sarebbe voluto più coraggio. Era necessario ampliare reati e fasi processuali in cui patteggiare, con possibilità di accordo tra accusa e difesa anche sul titolo della imputazione.
La premialità per la rinuncia all’impugnazione nel rito abbreviato è irrisoria.
E’ necessario depenalizzare tutte le contravvenzioni, come è necessario liberare i Tribunali dalla procedibilità d’ufficio delle lesioni colpose da circolazione stradale, rimettendone, come era in origine, la procedibilità alla disponibilità della persona offesa e prevedendone l’estinzione in caso di avvenuto risarcimento.
Per i reati contro il patrimonio, truffe e appropriazioni indebite, occorre prevedere canali di verifica e recupero immediato del maltolto, con intervento del giudice sin dalle prime fasi procedimentali. Il fine di chi denuncia questi reati è la tutela dei propri beni e una condanna dopo undici anni e mezzo dal fatto impedisce ogni recupero in sede civile, davanti ad un condannato che nel frattempo si sarà privato di ogni bene.
Altra soluzione indifferibile è il raddoppio dell’organico dei Magistrati e il reclutamento dei migliori avvocati in via onoraria.
Occorre, ancora, la riforma, ormai non più rinviabile, dell’Ordinamento Giudiziario.
In realtà la riforma Cartabia chiede un cambio di passo anche alle Procure, che dovranno evitare di mandare a giudizio fascicoli dove non emerga allo stato una prognosi di condanna.
Si chiede a tutti maggiore responsabilità se è vero, come emerge dai dati, che il Tribunale di Reggio Calabria è primo nella classifica per l’entità dei risarcimenti pagati dallo Stato, con 8 milioni di euro a fronte di una media di 80.000 euro degli altri Tribunali, per chi sia stato ingiustamente sottoposto a detenzione preventiva in carcere o domiciliare e poi prosciolto.
Anzichè chiedere tempi più lunghi per i processi o allarmare l’opinione pubblica, sarebbe meglio concentrarsi su valutazioni più attente di fascicoli e inchieste, a volte clamorose nelle loro fasi preliminari, ma spesso evidentemente sgonfiate nei loro esiti finali.
La giustizia è un servizio al cittadino ma è rimesso all’avvocatura il delicato ruolo di intermediario tra leggi di difficile comprensione e la cittadinanza per spiegare le conseguenze di una ennesima riforma partita bene, ma finita in maniera insoddisfacente.
Avv. Ilaria Li Vigni, foro di Milano